Lo ribadisco subito, prima di tutto qui serve un prelievo sostanzioso dalle rendite. Una tassa patrimoniale sulla ricchezza vera e neanche tanto nascosta, perché diciassette anni di governo Berlusconi non sono passati invano e l’abuso nel tempo è diventato vanto, ostentazione, esempio da seguire e inseguire. Gli strumenti a disposizione della Agenzia delle Entrate ci sono, le indagini si possono eseguire con mezzi sempre più sofisticati e pervasivi. Il riccone gaudente lascia tracce sostanziose nell’Italia sempre più desertificata, basta guardare le auto con cui va a spasso, basta chiedere al personale di servizio, basta andare in banca e dare un’occhiata ai suoi conti. Certo che se ci basiamo sull’autocertificazione prodotta con la dichiarazione dei redditi ci troveremo di fronte sempre ai soliti noti, il furbetto che scorazza in Porshe Cajenne evasore da millenni non lo scoveremo mai. Mi ha colpito la battuta di una coppia francese , un servizio in tv di qualche giorno fa. In Francia le tasse sono alte ma si pagano, anche perché se paghi le tasse dovute hai poi diritto a usufruire di tanti servizi che lo Stato eroga, dagli assegni per i figli ( il cui numero fa diminuire l’imposizione fiscale) fino ai vouquer con cui pagare la badante e perfino l’idraulico. Se non paghi le tasse, insomma alla fine non hai diritto a questi bonus e ci perdi.
Pensioni e assistenza. Contributi ed evasione contributiva. Negli ultimi dieci anni il contratto di lavoro dipendente è stato attaccato e le regole ad esso collegate erose, snaturate, distrutte dalla proliferazione dei contratti atipici nati dal pacchetto Treu (governo Dini) e poi ben cresciuti con la legge n. 30, la cosidetta legge Biagi. Chè Biagi, poi, non ne ha nemmeno colpa perché del suo pensiero fu presa da Berlusconi soltanto la prima parte, quella che riguardava l’ingresso al lavoro, e nulla si fece sul fronte poi del sostegno al reddito.
Sono nati così nel tempo prima i cococò e pi i cocoprò, figli bastardi di una legislazione imperfetta e abortita, soprattutto strabica a vantaggio dei datori di lavoro. Il “lavoro occasionale” che poi applica le regole proprio della legge trenta ha di fatto offerto a padroni e padroncini la possibilità di licenziare e poi riassumere gli stessi dipendenti ( per lo stesso lavoro) annullando di fatto le regole fissate dai contratti di categoria. Incarognirsi oggi contro i licenziamenti è un falso problema, in Italia questa battaglia i lavoratori l’hanno già persa accettando di essere inquadrati non più come lavoratori a tempo indeterminato bensì come collaboratori a progetto, amen.
Questi nuovi contratti ad personam hanno soltanto la parvenza della legalità. Non ti pagano ferie e malattia e la copertura inail e inps è proprio lo stretto necessario. Potrebbero andar bene per una vendemmia, altro è passarci la vita dentro, devi farti il segno di croce e sperare di stare sempre bene altrimenti son guai. E comunque, se vai in banca a chiedere un qualsiasi mutuo con un contratto trimestrale, ti ridono in faccia.
La prima mossa del governo Monti sulle regole del lavoro dovrebbe perciò riprendere il discorso da dove Prodi era stato costretto a interromperlo: alzare il prezzo del lavoro a tempo determinato, chi assume temporaneamente deve pagare di più.
Poi le pensioni, o meglio, la quota assistenziale che si paga in trattamenti che non hanno a che fare con i contributi ma vengono comunque definiti pensioni lo stesso, giusto per incasinare ( tipico dell’Italia) le idee. Le pensioni agli invalidi civili sono cifre ridicole se rapportate ai bisogni reali che comporta la cura quotidiana a un disabile totale. Più che di welfare state, in questi casi si dovrebbe parlare di welfare family perché è sulla famiglia del disabile che lo Stato scarica di fatto tutte le incombenze dell’esistenza quotidiana, indennizzandole con la pensione e nei casi più gravi anche con l’assegno di accompagnamento.
È giusto che uno stato che si dica democratico ed evoluto tuteli i suoi cittadini più deboli e persegua con ogni mezzo chi fraudolentemente si avvantaggia di indennizzi che non gli spettano. Ma la caccia ai falsi invalidi condotta dall’Inps e tanto reclamizzata sui giornali ha generato, in questo momento di crisi in cui tutti hanno paura che lo stato fallisca, un’odio indiscriminato e acritico nei confronti della categoria. Così a farne le spese sono gli invalidi veri, gente disabile dalla nascita con patologie gravissime richiamata a visita medica, come se da certe malattie come la tetra paresi spastica si potesse guarire con un viaggetto a Lourdes. Per di più, i soldi risparmiati dallo Stato stanando i falsi invalidi, etica vorrebbe che fossero adoperati per gli invalidi veri, e invece finora non è andata così.
Ancora: le pensioni “integrate al trattamento minimo”. Questa è una gran brutta storia, che va almeno sinteticamente spiegata. Dall’Italietta del dopoguerra fino al decreto Amato del 1992, prima vera riforma del sistema pensionistico italiano, molte categorie di lavoratori (in particolare privati: artigiani e commercianti, coltivatori diretti, etc.) sono state avvantaggiate rispetto al lavoro dipendente dall’entità dei contributi richiesti, una vera sciocchezza rispetto al reddito reale di queste categorie. Avveniva così che il macellaio sotto casa incassasse un milione di lire al giorno e pagasse mensilmente un decimo dei contributi dell’impiegato che andava ad acquistargli la carne, che aveva uno stipendio, diciamo per dire, di un milione (di lire ) al mese. La sperequazione fra i due versamenti era davvero tanta, e generava alla fine due pensioni che al calcolo dei contributi realmente versati restituivano da una parte dignità al versamento dell’impiegato, che percepiva una pensione più alta (per esempio 700mila lire al mese). La pensione a calcolo del commerciante, invece, data l’irrisorietà della contribuzione versata, era di 100 lire al mese e veniva perciò “integrata” a una soglia minima stabilita dalla legge, mettiamo 500mila lire. Così, oltre al danno, la beffa: il macellaio che aveva guadagnato tanto e versato poco, quasi raggiungeva l’impiegato anche nel pensionamento. Solo che mentre la pensione del secondo era tutta corrispondente ai contributi versati, quella del primo ( il commerciante) lo era soltanto per la parte adeguata (100 lire) e il resto (499900 lire) era assistenza a carico della collettività.
Vero che poi nel frattempo arrivò la legge Visentini con l’obbligo del registratore di cassa ( il famoso scontrino fiscale) e con l’obbligo per i lavoratori autonomi del versamento aggiuntivo, oltre ai contributi in cifra fissa, di un contributo a percentuale basato sul reddito. Ma le cose non cambiarono molto perché le dichiarazioni dei redditi fatte dagli autonomi non erano ( e non lo sono tuttora) veritiere e dunque anche il contributo a percentuale restò compresso da questi comportamenti illegali, costituendo per l’Inps e per lo Stato un mancato gettito, di fatto un’evasione.
Nel frattempo qualche correttivo era stato però introdotto. La legge 638 del 1983 subordinò (art. 6) l’integrazione al trattamento minimo delle pensioni ( cioè, per tornare all’esempio precedente, la possibilità che una pensione del valore di 100 lire al mese fosse pagata a 500mila lire al mese, ovvero all’ammontare del trattamento minimo in vigore in quel momento) alla verifica del reddito del richiedente. Successivamente il dlgs 503/1992 (decreto Amato) estese la verifica del reddito anche al coniuge del richiedente ( e chissà com’è, in quel periodo fiorirono in Italia le separazioni legali).
Di fatto ancora oggi abbiamo situazioni sicuramente di abuso anche – e direi soprattutto – proprio nella fascia delle pensioni integrate al trattamento minimo. Ci sono vedove che risultano nullatenenti e abitano in case di 200 e passa metri quadri in quartieri di lusso, e prendono l’integrazione al minimo per pagare la colf. Se si conducesse una battaglia di legalità vera ( con indagini dello stesso tipo di quelle effettuate sugli evasori fiscali, perché qui si parla, fra l’altro, di ignobile furto di risorse destinate al sostegno del reddito di chi è realmente bisognoso) si scoprirebbe una montagna di denaro frutto di abuso. Con quel denaro si potrebbe ripianare l’assistenza ai veri bisognosi ai quali oggi lo Stato eroga davvero un’elemosina, senza pesare sulle spalle della comunità sana.
Insomma, da grattare ce ne è, eccome. Basta volerlo fare, senza fidarsi delle dichiarazioni spergiurate da parte di chi fino ad oggi si è approfittato della buona fede. E anche senza disturbare – qui sta la vera efficienza delle indagini preventive, che permettono controlli realmente mirati ad personam – la gente perbene che legittimamente usufruisce di indennizzi legati al reddito o alla salute.
Dunque, ricapitolando: da subito una sostanziosa patrimoniale che colpisca i redditi alti e altissimi di chi nella crisi è evidentemente riuscito a galleggiare meglio di altri. Poi, con giudizio, prima di toccare le nuove pensioni con il paventato passaggio al contributivo per tutti e l’eliminazione della pensione di anzianità ( che andrebbe, per etica, mantenuta almeno per i lavori usuranti) dare una energica e risolutiva raddrizzata alle regole delle pensioni già in essere, sulla falsariga di quanto appena descritto, per restituire al popolo italiano un’etica del comportamento che dal governo entri direttamente nelle case dei cittadini facendo radicare il convincimento che stavolta si fa davvero sul serio, che è finita per sempre la stagione dei furbetti.
Speriamo che qualcuno lo suggerisca a Monti.
Stefano Olivieri
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